“CERCATRICI DI LUCE” NELL’INFERNO, L’8 MARZO DELLE LEONESSE DELLA LIBERTÀ

Sei marzo 2022. Una madre, una donna. È riversa sull’asfalto, vicino a lei la sua bimba di otto anni con lo zainetto ancora sulle spalle, e il suo bimbo, poco più grande, con il suo piccolo grande trolly in mano. Vicino a loro il papà, il marito, ferito gravemente, soccorso dai militari ucraini. Lei tentava, come tutte le mamme, come tutte le donne, di portare in salvo i suoi figli. Il New York Times pubblica la foto  scattata dalla freelance Lynsey Addario  (una donna, celebri i suoi scatti che hanno “fissato” le crisi nel mondo dalla Libia al Pakistan) e l’immagine fa il giro del mondo. E’ lo scatto di una tragedia, è lo scatto della guerra. La fuga dall’inferno.

Ha i capelli grigi l’anziana ucraina, è sopravvissuta all’assedio di Leningrado e ha partecipato alla manifestazione di San Pietroburgo stringendo tra le mani due grandi cartelli con scritte contro il conflitto in Ucraina. Non molla e non mollerà.

“Ci siamo sempre chiesti chi avrebbe fermato Putin. Pensavamo che sarebbe stata una coalizione di grandi Paesi e invece siamo noi”. Lei è Kira Rudik, parlamentare, capo del partito ucraino Golos ed ex amministratore delegato della sede ucraina di Amazon Ring, intervistata da Antonino D’anna su Radio Libertà. Ha 36 anni, imbraccia  un fucile d’assalto “sto imparando a usare il Kalashnikov e mi preparo a prendere le armi” Cosa sogna? Risponde ad Antonino D’Anna: “Adesso esco di pattuglia per le strade di Kiev ma la prima notte di pace sogno un bagno caldo e il silenzio”. Sasha aveva deciso di restare in Ucraina per prendersi cura dei suoi animali ma un razzo ha colpito nella notte la sua casa.

Non si sa il suo nome. E lei è per tutti la bambina dal pigiama con gli unicorni rosa. L’hanno ribattezzata così. I capelli tirati indietro con un elastico e sangue ovunque, all’ospedale di Mariupol.

Iman Boughali era a Kiev, proviene dall’Algeria. Era a Kiev per studiare. E’ lei la prima vittima della guerra russa. E ci sono altre donne, altre madri. Le madri russe. Tutte queste madri, tutte queste donne, cervcavano la luce nell’inferno. In questa guerra che puzza di testosterone, come ha dice la giornalista Nicoletta Orlandi Posti, la parte forte-debole sono loro, le donne in battaglia, in trincea, le donne che resistono in una “staffetta” permanente e consistente. I dati ufficiali dell’Esercito parlano del 15% di donne soldato, 36.000 impegnate attualmente nella guerra contro la Russia. E ci sono le donne ucraine stuprate, mentre si negozia e si bombarda, come denunciano le ucraine e il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, contro la Russia. È la guerra, mi direte. Vero, è la sporca idiota guerra. Perché “quasi niente quanto la guerra e niente come una guerra ingiusta frantuma la dignità dell’uomo”, come scrive  Oriana Fallaci. E oggi abbiamo il dovere di guardare alla guerra. Perché oggi non non è aria di festa. E l’8 marzo non è una festa. E’ la Giornata internazionale della donna, una giornata che ipocritamente da troppi anni è scivolata nella fatua riflessione tra lustrini, paillettes, labbra al silicone, tra il paternalismo e il machismo del maschio “protettore” e le ipocrisie tra le donne stesse, le prime a farsi la “guerra” tra di loro nei giorni di scalate della vita invece di prevenire in squadra le cadute. Mi direte, ci sono le donne violate ogni giorno, le Saddam Abbas di tutti i giorni, i femminicidi. Ci sono. E non devono esserci. Hanno cercato e cercano la luce. Per chi non ce l’ha fatta, e ancora lotta, aiutiamole ad uscire dall’inferno. Aiutiamoci. Con le azioni e non con i fiori. Senza falsa retorica.

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