NEXT GENERATION EU: TRA “PRIORITÀ” E PRIORITÀ

Non ci saranno Fraunhofer senza grandi imprese in grado di finanziare importanti progetti di innovazione. Anche la digitalizzazione alla quale sono destinati ingenti investimenti statali, rischia di non esprimere il proprio potenziale senza tutte quelle grandi imprese che per le loro dimensioni e la loro vocazione internazionale (le cose vanno di pari passo) ricercano la flessibilità che la digitalizzazione è in grado di fornire.

Persino la transizione green necessita di grandi imprese, essendo le uniche in grado di sostenere i costi di una riconversione verso una maggiore sostenibilità “Comunicazione e sentiment analysis“. Obiettivo: Analisi e mappatura del grado di soddisfazione del cittadino nei confronti della PA. Costo: 500 mln di €.

Foreste urbane resilient per il benessere dei cittadini“. Obiettivo: Migliorare la qualità della vita attraverso lo sviluppo delle foreste urbane. Costo: 2.5 mld di €.

Digitale per tutti“. La proposta ha l’obiettivo di dotare 7,5 milioni di famiglie di pc o tablet e di mettere a loro disposizione un servizio di supporto mediante 3000 facilitatori. Cost: 5 mld di €.

Questi sono solo alcuni dei 557 progetti presenti nel documento trapelato il 14 settembre, per una cifra superiore a 670 mld di € (più del triplo dei 209 che si prevede possano arrivare dall’UE). Il Ministro per gli Affari Europei, Vincenzo Amendola (PD), ha replicato in maniera perentoria all’episodio, affermando che i file pubblicati “sono risalenti a uno stadio inziale dei lavori con ipotesi e proposte già ampiamente superate”, e che ha presentato una denuncia in procura “per individuare i responsabili della fuga di notizie”. Anche Roberto Gualtieri si dissocia da quanto emerso affermando che “non faremo centinaia di microprogetti, ma pochi grandi progetti“, in linea quindi con linee guida della Commissione Europea, il cui obiettivo (non a caso il nome Next Generation EU) è quello di promuovere l’attuazione di riforme strutturali per avviare un processo di crescita in grado di garantire, in primis, la sostenibilità dell’ulteriore debito accumulato in seguito alla pandemia e, soprattutto nel lungo periodo, elevati standard di benessere anche alle generazioni future. Ciò che è però sconfortante, nonostante le rassicurazioni, è che nessuno dei due ministri ha smentito la veridicità di tali progetti.

La lista lascia spazio a molteplici perplessità. Quella che emerge primariamente riguarda la “stravaganza” di alcuni progetti per cui si è pensato (sebbene in passato) di impiegare risorse pubbliche con la trasparenza che tutti conosciamo; oltre a quelli menzionati in precedenza (“Digitale per tutti” sembra la versione con tutor del bonus TV), abbiamo progetti per l’installazione di un sistema di domotica per la Farnesina, per la costruzione di un “Acquario green” nell’area del porto di Genova, per l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria (conclusa a fine 2016), fino a quelli di matrice spielbergiana che si sostanziano nella “giustizia predittiva” (non anticipiamo il reato, ma ne anticipiamo la sentenza). Rispetto a quest’ultimo, è innegabile che la giustizia sia un elemento imprescindibile per un paese sano, ma forse prima di utilizzare l’intelligenza artificiale, andrebbero risolti problemi preliminari di natura ancora analogica. Se alla stravaganza affianchiamo la numerosità spropositata, emergono ulteriori perplessità riguardanti l’operatività dei vari ministeri. Tutti hanno inserito i loro progetti al completo, senza neanche dare la parvenza di una selezione secondo le linee guida del progetto europeo, e dimostrando l’assenza (più o meno volontaria) di comunicazione e coordinamento tra di loro, essenziali dati i vincoli del potenziale budget. Infine, gli oltre 64 mld di € richiesti per il rafforzamento del SSN denotano una totale ignoranza sulla natura dei progetti da poter sottoporre a Bruxelles, essendo il MES, che il M5S considera un’arma dei nemici della patria, l’unico strumento europeo con cui finanziarlo. Forse, però, l’ignoranza qui potrebbe considerarsi strumentale al tentativo del ministro Speranza di forzare l’utilizzo del MES (lasciamo il beneficio del dubbio).

Ovviamente, come un orologio rotto che segna l’ora giusta due volte al giorno, ci sono anche alcuni progetti che sembrano avere indirizzi quantomeno più concreti. In particolare, vi sono due progetti finalizzati a colmare il divario infrastrutturale fra Nord e Sud che insieme totalizzano 7,5 mld di €. Il primo progetto da 6 mld prevede di incrementare la dotazione di autobus al Sud ed accelerare il rinnovo del parco autobus con modelli più moderni ed ecocompatibili (20.770 nuovi autobus) su tutto il territorio nazionale. Stessa logica per i treni. 1,5 mld è la cifra destinata per il potenziamento delle linee regionali, sempre con l’obiettivo di ricomporre la frattura fra le due aree del paese. Vedremo quali potranno essere gli eventuali esiti di tali investimenti, considerando cosa testimonia il passato rispetto alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali nel Sud.

Il 15 di settembre, giorno dopo l’uscita della famigerata lista, è stato pubblicato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). L’intenzione del governo (che ha lavorato giorno e notte ad agosto, a detta di Conte) è quella di presentare alla Commissione il PNRR e la legge di bilancio entro il 15 ottobre, al fine di ottenere l’anticipo del 10%, 20 mld di €, sui fondi europei entro quest’anno. Il problema, però, è che per rendere operativo il NGEU mancano ancora diversi passaggi, non così banali. Devono essere rilasciati i decreti attuativi dalla commissione, ed inoltre, gli accordi, prevedendo un aumento del contributo nazionale al bilancio europeo, devono essere approvati dai parlamenti nazionali di tutti gli stati europei. Dunque, speranza vana perché l’Italia potrà presentare il proprio piano solo verso la fine di quest’anno e ottenere l’anticipo non prima della primavera del prossimo. Tanta celerità tenta maldestramente di distogliere l’attenzione dalla difficolta dell’esecutivo ad elaborare una manovra senza i fondi europei, dopo tre manovre in deficit da 100 mld complessivi (finanziate con titoli di stato italiani) destinate a finanziare una quantità sterminata di bonus e sussidi a pioggia.

Il PNRR si articola su tre linee strategiche: “Modernizzazione del paese“, “Transizione ecologica“, “Inclusione sociale, territoriale, parità di genere“. All’interno di queste linee guida si sviluppano sei missioni ognuna delle quali è suddivisa in insiemi di progetti (cluster). Le sei missioni sono: “Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo“, “Rivoluzione verde e transizione ecologica“, “Infrastrutture per la mobilità“, “Istruzione, formazione, ricerca e cultura“, “Equità sociale, di genere e territoriale“, “Salute“. Il documento rappresenta una dichiarazione di intenti; elenca le criticità del paese, dove intervenire, cosa c’è bisogno di cambiare, modelli a cui ispirarsi (gli immancabili Fraunhofer per l’R&S), e come intervenire. Ma proprio rispetto al come non si scende molto nei dettagli, non ci sono molti numeri per rappresentare concretamente gli interventi, nessuna priorità avanzata, nessuna indicazione di spesa e ricaduta sul PIL, nessuna valutazione sul potenziale impatto di qualche progetto già “in cantiere” diversamente da quanto fatto da altri paesi come Francia, Germania e persino la Grecia. Belle parole ma poca sostanza.

Per provare ad avere un’idea sulla possibile ricaduta dell’utilizzo dei futuri fondi europei sul PIL può essere d’aiuto il documento prodotto da Fabrizio Balassone, Capo del Servizio Struttura economica della Banca d’Italia, per un’audizione alla Camera dei deputati. Nel documento si afferma che

L’impatto macroeconomico di Next Generation EU dipenderà da diversi fattori. In particolare, oltre all’entità delle risorse che saranno effettivamente mobilitate, rileveranno: la natura aggiuntiva o sostitutiva degli interventi finanziati con il programma rispetto alle misure già approvate; la ripartizione fra le diverse voci del bilancio (data l’eterogeneità dei rispettivi “moltiplicatori”); il grado di efficienza nell’attuazione dei vari progetti“.

Inoltre, data l’incertezza sull’entità dei fondi, “Per ottenere indicazioni sul possibile ordine di grandezza di tali effetti sono state condotte due simulazioni con il modello econometrico della Banca d’Italia basate su scenari caratterizzati da ipotesi diverse sulla quota di risorse comunitarie destinate a finanziare misure aggiuntive e sulla composizione degli interventi”. Il modello prevede due scenari per i quali i 209 mld di € “siano utilizzati pienamente e senza inefficienze, con una distribuzione della spesa uniforme nel quinquennio 2021-2025“. Nel primo scenario si ipotizza un utilizzo delle risorse esclusivamente per progetti di investimento aggiuntivi rispetto agli interventi già programmati.

Le maggiori spese ammonterebbero a oltre 41 miliardi all’anno e potrebbero tradursi in un aumento cumulato del livello del PIL di circa 3 punti percentuali entro il 2025, con un incremento degli occupati di circa 600.000 unità“.

Nel documento si sottolinea che tale scenario “presuppone uno sforzo notevole in termini di progettazione e di capacità di esecuzione degli investimenti“, trattandosi “di raddoppiare la spesa effettuata nel 2019 (40,5 miliardi; tra il 2000 e il 2019 la spesa media annua per investimenti è stata pari a 43,5 miliardi, […] sistematicamente inferiore a quella programmata, anche per la difficoltà di preparare e gestire i progetti)“. Il secondo scenario menzionato nel documento “ipotizza che […] il 30% delle risorse venga utilizzato per misure già programmate e che la parte rimanente venga destinata solo per circa due terzi a finanziare direttamente nuovi progetti di investimento” per un ammontare di “circa 29 miliardi all’anno, di cui solo 19 per investimenti. L’impatto cumulato sul PIL raggiungerebbe quasi 2 punti percentuali nel 2025“.

Successivamente si sottolinea che l’impatto delle misure di bilancio potrebbe essere più positivo di quanto previsto dal modello econometrico, data la situazione di forte debolezza del paese, e che le stime non incorporano l’incremento di domanda negli altri paesi europei alimentato da misure analoghe. Inoltre, si fa notare di non sottovalutare il riflesso positivo che un incremento del capitale pubblico ed un miglioramento dei servizi potrebbero avere sulla redditività del capitale privato e sulla produttività del sistema economico nel lungo periodo.

Il documento prefigura però anche “scenari con effetti sul PIL più contenuti, nel caso ad esempio di un ricorso solo parziale a Next Generation EU, di una quota maggiore di risorse destinata a interventi già programmati o di una composizione della spesa meno favorevole alla crescita“. Lo scenario di ridotta efficienza nella spesa per investimenti prevede che “solo metà della spesa comporta un incremento dello stock di capitale pubblico, mentre la parte rimanente resta “improduttiva”, con un minore impatto sull’attività economica. Sotto queste ipotesi l’effetto cumulato sul livello del PIL nel 2025 si ridurrebbe a circa 2 punti percentuali per il primo scenario e a 1,5 per il secondo”. Infine, si evidenzia la necessità di una discontinuità con il passato rispetto all’efficienza nell’impiego delle risorse per la salvaguardia dell’equilibrio delle finanze pubbliche nel lungo periodo. Un utilizzo mirato e ponderato delle risorse sarà fondamentale per rilanciare le prospettive di crescita dell’economia, e garantire la stabilità del debito italiano.

In entrambi i documenti si evidenzia l’imprescindibilità di un intervento per favorire l’innovazione nel nostro paese. L’innovazione tecnologica (alla quale la produttività è indissolubilmente legata) è un elemento essenziale per la crescita economia, come evidenziato da tutta la letteratura economica; ed è proprio questo che è mancato all’Italia negli ultimi 40 anni. Se vediamo i dati per l’UE 28 nel 2017, in media più del 66% della spesa in ricerca e sviluppo proviene dal settore privato, ed in particolare per l’Italia, su 23,8 mld di € di spesa complessiva in ricerca e sviluppo nel paese (1,4% del PIL contro l’2,2% UE), 14,8 mld di € sono riconducibili alle imprese, rappresentando il 63,8% del totale. Se andiamo a vedere la EU Industrial R&D Investment Scoreboard nel 2017, possiamo notare come le aziende italiane nella top 1000 sono solo 38, di cui solo 5 nella top 100, per un totale di quasi sei miliardi di investimenti. Esse totalizzano circa il 40% sui 14,8 mld del settore privato e circa il 25% sui 23,8 mld di € complessivi. Il numero di imprese presenti sul territorio italiano è pari a 4 milioni 398 mila unità, con 95,2% di microimprese (meno di dieci addetti), 4,6% di piccole-medie imprese (tra 10 e 249 addetti) e lo 0,1% (3.601) grandi imprese. Come è possibile dedurre, poco più dell’1% delle grandi imprese muove circa il 40% circa della spesa in ricerca e sviluppo dell’intero settore privato ed il 25% circa dell’intero paese. Se si vuole veramente dare impulso all’innovazione è da qui che si deve partire. Negli anni futuri bisogna far in modo di incentivare la crescita dimensionale delle imprese; queste sono le uniche in grado di sostenere gli investimenti necessari per portare avanti significativi progetti di innovazione. Se per la formazione del capitale umano, l’altra componente imprescindibile dell’innovazione tecnologica, è richiesta la partecipazione attiva dello stato in termini di spesa diretta e progettazione di sistema (e c’è solo da tremare se si guarda al passato), per quanto concerne la questione della crescita dimensionale delle imprese, lo stato si deve limitare a stabilire le “regole del gioco”, per dar vita ad un ambiente improntato alla flessibilità ed al dinamismo, che favorisca la crescita e che lasci le imprese libere di operare le strategie che ritengono migliori. Ed è da una riforma fiscale che non sia nemica della crescita che bisogna partire. Non ci saranno Fraunhofer senza grandi imprese in grado di finanziare importanti progetti di innovazione. Anche la digitalizzazione alla quale sono destinati ingenti investimenti statali, rischia di non esprimere il proprio potenziale senza tutte quelle grandi imprese che per le loro dimensioni e la loro vocazione internazionale (le cose vanno di pari passo) ricercano la flessibilità che la digitalizzazione è in grado di fornire. Persino la transizione green necessita di grandi imprese, essendo le uniche in grado di sostenere i costi di una riconversione verso una maggiore sostenibilità (secondo l’Eco-Innovation Index, nel 2018 l’Italia è al di sotto della media dell’UE nella spesa in R&S nelle tecnologie per migliorare l’efficienza energetica… guarda caso). Per ora, tra liste disorganiche con progetti di domotica e piani di ricovero mirabilmente confezionati, ancora nulla di concreto si staglia all’orizzonte. Una cosa è certa: non basteranno antenne 5G e ferrovie a trasformare il Tavoliere delle Puglie nella nostra Silicon Valley.

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