SUL TAVOLO DEL GOVERNO LA CRISI DELLE IMPRESE, 273.000 CHIUSE NEL 2020

I rari detrattori del governo Draghi gli imputano disegni di liberismo selvaggio. La politica economica del nuovo capo del governo – secondo loro – punterebbe a lasciare al loro destino le imprese “zombie”, cioè quelle “non morte”. Quelle che non hanno più fiato ma vivono di sovvenzioni pubbliche. In realtà ce ne sono 273mila che sono state chiuse nel m2020 e che non riapriranno più. Imprese proprio “morte” e basta e che non si rialzeranno più. Piegate dai lockdown generalizzati e dalle chiusure  locali, dalla desertificazione delle città e degli uffici, dalla crisi globale sui mercati internazionali.

Gli ultimi dati Istat, relativi ad un’indagine campionaria molto ampia (riferita ad un universo di  1.019.786 imprese di 3 e più addetti che operano nel settore  dell’industria e dei servizi) effettuata tra ottobre e novembre,  parlano di 73.000 imprese chiuse, vale circa il 7,2% del totale. Se si guarda poi al registro delle imprese monitorato da Unioncamere e  Infocamere, sono 273.000 le cessazioni nel 2020, anche se il saldo  finale tra chiuse e aperte (poco più di 292.000) è ancora positivo  (+0,32%), segno di una certa resilienza del nostro tessuto  imprenditoriale.

Ma c’è molta preoccupazione per i dati relativi al primo trimestre e  per due motivi: il primo è che, storicamente, è in questo periodo  dell’anno, all’inizio, che si concentrano le chiusure, e il secondo è  l’effetto derivato dal venire meno (salvo interventi governativi) tra  45 giorni del divieto per le aziende di procedere a licenziamenti per  motivi economici, sia individuali, sia collettivi.

Non solo: il 31 marzo scadono anche i trattamenti di integrazione  salariale ordinaria con causale Covid-19 (prorogati a gennaio 2021 di  3 mesi per un totale di 12 settimane aggiuntive), mentre per la cassa  integrazione in deroga causa Covid c’è tempo fino al 30 giugno. (segue)

Ma le stime che arrivano dalle associazioni di imprenditori vedono ancora più nero, anche e soprattutto per i primi  tre mesi del 2021: cupe le previsioni di Confcommercio che parlano di  chiusura definitiva di oltre 390mila imprese del commercio non  alimentare e dei servizi di mercato, fenomeno non compensato dalle  85mila nuove aperture, per cui la riduzione del tessuto produttivo nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305mila imprese (-11,3%). Di  queste, 240mila, esclusivamente a causa della pandemia.

Anche per Confesercenti, a causa del Covid, sono a rischio chiusura  150mila imprese del terziario (80mila nel commercio e 70mila nel  turismo) e per Confartigianato un’impresa su 5 (il 21%) è soggetta a  rischi operativi e avrà difficoltà nel proseguire l’attività nei  prossimi mesi.

Secondo l’Istat, a cadere di più sotto i colpi della crisi da pandemia sono state le piccole e piccolissime imprese e quelle che operano al Sud: come dire che la crisi ha trovato terreno  fertile su un tessuto già fragile. L’85% delle unità produttive  “chiuse” sono infatti microimprese e si concentrano nel settore dei  servizi non commerciali (58 mila unità, pari al 12,5% del totale), in  cui è elevata anche la quota di aziende parzialmente aperte (35,2%). Una situazione

Palestre, attività sportive, discoteche presentano la più alta  incidenza di chiusura, seguite dai servizi alberghieri e ricettivi e  dalle case da gioco. Una quota significativa di imprese attualmente  non operative si riscontra anche nel settore della ristorazione (circa 30 mila imprese di cui 5 mila non prevedono di riprendere) e in quello del commercio al dettaglio (7 mila imprese). Il 28,3% degli esercizi  al dettaglio chiusi non prevede di riaprire rispetto all’11,3% delle  strutture ricettive, al 14,6% delle attività sportive e di  intrattenimento e al 17,3% delle imprese di servizi di ristorazione  non operative.

Tra le imprese attualmente non operative, quelle presenti nel  Mezzogiorno sono a maggior rischio di chiusura definitiva: il 31,9%  delle imprese chiuse (pari a 6 mila unità) prevede di non riaprire,  rispetto al 27,6% del Centro, al 23% del Nord-Ovest e al 13,8% del  Nord-Est (24% in Italia). Tra le imprese attualmente non operative,  quelle presenti nel Mezzogiorno sono a maggior rischio di chiusura  definitiva: il 31,9% delle imprese chiuse (pari a 6 mila unità)  prevede di non riaprire, rispetto al 27,6% del Centro, al 23% del  Nord-Ovest e al 13,8% del Nord-Est (24% in Italia). Una situazione che trova le radici nel lockdown generalizzato di marzo 2020, quando si decise di sprangare tutte le attività produttive italiane anche se al Centro-Sud non si registrava segno di epidemia. Una responsabilità che il governo Conte-Bis porta interamente sul suo capo. Se allora si fosse agito con maggiore accortezza e più competenza probabilmente non avremmo oggi questi numeri.

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