LA CRISI DEI CHIP METTE IN PERICOLO LA RIPRESA POST-COVID DELL’OCCIDENTE

Mentre noi pensiamo all’endorsement di Zingaretti per Barbara D’Urso, la globalizzazione è scossa dalla crisi dei microchip. Quelli con cui si realizzano batterie di grande capacità, prodotti farmaceutici, aeroplani  e soprattutto, i semiconduttori. I chip sono diventati rari come le “terre rare” che servono per realizzarli. La produzione mondiale è nelle mani della Cina e dell’Oriente e Usa e Germania stanno pagando con miliardi di dollari e di euro di perdite la scarsità nell’approvvigionamento. La loro produzione di automobili e computer è vicina a fermarsi per mancanza di chip, l’esternalizzazione della produzione li ha lasciati senza.

Ma non solo, gli eventi naturali incidono: un terremoto nella zona di Fukushima, in Giappone, il 13 febbraio scorso ha distrutto parte della delicata strumentazione delle aziende giapponesi che producono microchip, mentre a Taiwan la siccità che da mesi affligge l’isola ha portato a una razionalizzazione del consumo di acqua. E per fare i chip serve moltissima acqua che già era stata sottratta all’agricoltura, e quindi alla produzione di cibo, pur di mandare avanti la produzione di semiconduttori. Risultato: scarsità sul mercato dei chip.

Non ultimo. In Congo, proprio nella zona dove sono stati assassinati l’ambasciatore italiano Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci si estrae il Coltan, la columbite-tantalite, “terra rara” preziosissima per la costruzione dei microchip e le bande più o meno regolari si scontrano da anni per accaparrarselo. Può costare la vita. Da vent’anni una missione di peacekeeping dell’Onu, la Monusco, è lì al prezzo di 1,2 miliardi di dollari l’anno. Un costo pesantissimo e contestato sia da alcuni Paesi Onu sia dalla popolazione locale, necessario soltanto a una cosa: controllare la produzione e l’approvvigionamento di Coltan, non certo a proteggere la popolazione dai banditi.
Ma vediamo i numeri: qualche giorno fa abbiamo scritto che la VolksWagen ha diminuito la produzione della Golf 8, auto ibrida – metà a benzina, metà elettrica – per la crisi dei chip. Ma negli Stati Uniti non se la passano meglio. E uno dei primi provvedimenti di Joe Biden  ha firmato è un nuovo ordine esecutivo – dopo quello sulla produzione di vaccini –  volto a tutelare le catene di distribuzione delle industrie strategiche negli Stati Uniti. L’inquilino della Casa Bianca ha avvertito che ignorare il problema rischierebbe di esporre gli Usa a “conseguenze gravi”: la scarsità rischia di minare la ripresa economica degli Stati Uniti nel dopo pandemia.

General Motors ha chiuso tre impianti in America e dimezzato la produzione di due impianti in Corea; Ford ha tagliato il 20% della produzione nel primo trimestre, riducendo a un solo turno di 8 ore la produzione di uno stabilimento di Detroit, per una potenziale perdita di circa un miliardo. Stessi tagli per altre case automobilistiche giapponesi Mazda, Nissan, Subaru o quelle tedesche. E il Ceo di Porsche, Olivier Blume, sostiene che la scarsità di semiconduttori potrebbe durare “mesi”. Gli esperti stimano una perdita di 60 miliardi di dollari in minori entrate. Una cifra astronomica che rischia di affossare la ripresa post-Covid del settore e, di riflesso, dell’economia mondiale.
Gli Stati Uniti hanno visto crollare la loro quota globale di produzione dei semiconduttori, che secondo il Boston Consulting Group è calata dal 37 per cento del 1990 al 12 per cento di oggi. E ora cercano di correre ai ripari. Impossibile, al momento, pensare di tornare a produrre in proprio per gli Usa: avviare una fonderia per semiconduttori, pur avendo le materie prime, costa due anni di lavoro e quattro miliardi di dollari di investimento.

L’iniziativa dell’amministrazione Biden -quindi – prevede uno sforzo coordinato con Taiwan, Giappone e Corea del Sud, che però come abbiamo visto sono in grave crisi nella produzione. Gli Stati Uniti intendono condividere informazioni con i Paesi alleati in merito alle catene di fornitura strategiche, e agevolare lo sviluppo di produzioni complementari.

L’Europa, la Ue, è logicamente fuori dai giochi e pagherà solo conti. Mentre Tokyo, Washington, Pechino, Taipei o Seul non restano a guardare, Bruxelles è ferma. Si sta parlando di cominciare a costituire una alleanza europea tra le aziende di semiconduttori che potrebbe coinvolgere anche i produttori di automobili e le compagnie di telecomunicazioni. L’idea che gira è quella di investire sul progetto trenta miliardi di euro tra pubblico e privato e per ora una ventina di Paesi ha dato la sua disponibilità a far parte del progetto. Ma i tempi lunghi di Bruxelles e le continue rivalità tra i Ventisette rischiano che l’Europa non entri mai nel gioco della produzione di semiconduttori e si limiterà ad acquistare a prezzi astronomici il lavoro degli altri. Con pesanti ricadute sui consumatori.

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