DA SUPERMARIO A RAGIONIER DRAGHI IL RECOVERY È LA SAGRA DELL’OVVIO
Il “piano epocale” così lo hanno definito è quanto più di politically correct si possa immaginare. Non contiene un’idea di Paese ed è scritto sotto dettatura di Bruxelles. Approda in Parlamento (dove è vietato discuterlo) e avrà un beneficio limitatissimo sull’economia perché è privo d’idee e di coraggio. C’è qualcuno che però ne guadagnerà: i soliti garantiti e le industrie tedesche e francesi.
Da Supermario a ragionier Draghi (con tutto il rispetto per i ragionieri) nel volgere di 318 pagine. Ci hanno raccontato che l’aspirante leader dell’Europa ha fatto una telefonata di fuoco a Ursula Von der Leyen per convincerla a non giudicare le proposte dell’Italia sul Next Generation Ue spendendo tutto il suo prestigio. Ha tuonato: state tranquilli che ci penso io a far fare le riforme all’Italia, io Mario Draghi sono la garanzia assoluta. Beato chi ci crede! La cosa curiosa è che tra i più entusiasti di questa nuova (si fa per dire) versione del Recovery Plan ci sono i 5Stelle e il Pd che avevano scritto quello di Giuseppe Conte che è stato buttato nel cestino, ma ha comunque costituito una zavorra di tempo e di promesse fatte sul documento attuale predisposto quasi in solitudine dal ministro dell’Economia Daniele Franco che non brilla per iniziativa rivoluzionaria: in Banca d’Italia dove era fino all’altro ieri direttore generale lo chiamavano “il grigio” e questo basta! In effetti anche se la stampa molto amica del presidente del Consiglio e con molti amici nel Pd l’ha definito un “piano epocale” quello che approda in Parlamento dove è di fatto vietato discuterlo visti i tempi e i modi (comunicazioni di Draghi tra lunedì e martedì e dichiarazioni di voto tertium non datur e poi la chiamano democrazia!) è un trattato in rime baciate di ragioneria declinato nel più puro politicaly correct.
Non c’è dentro né un’ idea di paese, né un indirizzo programmatico, né un progetto capace di lasciare il segno come furono ad esempio l’Autostrada del Sole o il piano delle grandi dighe, o il varo della televisione nel dopoguerra quando l’Italia decise di ripatire. Dentro c’è solo il rigido rispetto delle gabbie imposte da Bruxelles e che servono alle industrie tedesche a venderci tecnologia, alle strutture finanziare francesi a catturare i nostri investimenti e accontentano un po’ di amici degli amici. Si potrebbe fare (e lo faremo) già l’elenco di chi si intesterà profittandone i progetti verdi e i progetti per il digitale. Che il piano sia sostanzialmente una ripartizione acritica delle poste d’investimento decise da Bruxelles lo dicono i numeri, che vi sia molto di politically correct lo dice il fatto che c’è la clausola del 40% sulle assunzioni di giovani e donne, ci sono i soldi per il Sud, ma senza nessuna indicazione di vocazionalità economica. Vi sono interi capitoli dal sapore assistenziale. Leggendo le macrovoci ci fanno sapere che 31,9 miliardi saranno spesi per la ricerca, per la rivoluzione verde 68,6 miliardi, 22,4 miliardi per l’inclusione e coesione (e qui ci sguazzano tutti gli amici degli amici), 18,5 miliardi per la sanità, 49,2 miliardi per la digitalizzazione.
Ma se cercate in tutte le 300 e passa pagine un progetto che sia uno che vi faccia dire, beh stiamo svoltando non lo troverete. Ci sono ad esempio aspetti comici come l’alta velocità in Sicilia, ma per arrivarci ci si va comunque in traghetto, o ce ne sono altri di eccelsa retorica come gli asili nido. Si vantano che il piano crea 152.000 posti per i bambini fino a 3 anni e 76.000 per i bambini tra i 3 e i 6 anni. Abbiamo una spaventosa crisi di natalità e pur indebitando il Paese per le prossime cinque generazioni non siamo neppure in grado in sei anni di coprire il 20% delle nascite! Alcune chicche sono da “asilo Mariuccia” per restare in tema come il trionfo annunciato di ridurre del 15% la dispersione idrica come se non si sapesse che in Italia va perso oltre il 40% dell’acqua. Ma ciò che stupisce è che è un piano scritto senza conoscere il Paese. Non c’è nulla per frenare la desertificazione demica della montagna e dell’Appennino, non c’è nulla per la valorizzazione del patrimonio paesaggistico, artistico, storico e monumentale, non c’è nulla per la qualificazione dell’agroalimentare, nulla per la portualità, per le autostrade del mare, nulla salvo un hub digitale per il turismo che ha bisogno di infrastrutture specifiche, di progetti di integrazione tra percorsi veloci e percorsi lenti, di riqualificazione delle strutture ricettive.
E’ un piano scritto a Bruxelles dove i nostri hanno messo un po’ di numeri. Ma ci sono altre note dolenti. Il piano per avere efficacia deve contenere le riforme di giustizia, pubblica amministrazione e fisco. Sappiamo solo che gli impiegati pubblici sono stati gratificati già con aumenti di stipendio, che la semplificazione è citata, ma non finanziata, che non c’è alcuno snellimento né del codice degli appalti né della burocrazia. Si rimanda tuto alla taumaturgica digitalizzazione senza tenere conto che abbiamo una popolazione anziana. E’ inutile digitalizzare se non si alfabetizza chi poi questa digitalizzazione la deve usare! Sulla riforma della giustizia sappiamo che si sono messi di traverso l’Anm e il Csm. Quella penale non si farà, quella civile si limiterà al processo telematico, continueremo a tenere quel carrozzone inspiegabile dell’Anac duplicato dalla Corte dei Conti, non aboliremo la giustizia amministrativa che dovrebbe confluire come nei paesi moderni in quella civile (non si capisce perché la Pubblica amministrazione debba avere un privilegio) non aboliremo i controlli preventivi e i processi autorizzativi perché questo significherebbe che la burocrazia si autolimita e non si è mai visto che il maiale si inviti alla festa della porchetta!
L’unica riforma sarà quella del fisco che è già orientata: come ci ha fatto autorevolmente sapere Fabrizia Lapecorella, direttore generale della Finanze che smania per potere stangare le partite Iva innalzando la tassazione forfettaria e annullando per tutti i professionisti le detrazioni e deduzioni, sarà incentrata sull’aumento della progressività e della pressione fiscale. Perché? Ma semplicemente perché quella del Recovery Fund è una gigantesca montatura e il Governo deve cercare i soldi. Oltretutto ha un’occasione unica: riformare il fisco durante il semestre bianco quando il Parlamento non può essere sciolto! Si ricorderà che soprattutto Pd e Italia Viva esultavano proclamando: arrivano 209 miliardi dall’Europa, soldi mai visti! I soldi che arrivano dall’Europa sono 191,5 miliardi, per arrivare a 220 ce ne mettiamo dei nostri. Si diceva: l’Italia è il paese maggiormente beneficato. Non è vero: la Spagna avrà più soldi a fondo perduto di noi e non prenderà alcun prestito. Si diceva: l’Europa mette in comune il debito. Non è vero. Dei 191 miliardi 127 li prendiamo a debito e dobbiamo restituirli. Dunque con soldi nostri (se li prendiamo a debito e li dobbiamo restituire stiamo pagando quei soldi) dobbiamo fare quello che ci impone l’Europa senza nessuna valorizzazione delle peculiarità e specificità dell’Italia e del suo sistema produttivo. E perché? Semplicemente perché con i nostri soldi pagheremo le industrie tedesche che verranno qua a fare ciò che Bruxelles ci ha imposto di fare e che non è quello che ci serve. Una prova? L’impatto sui conti. Dicono le sudate carte del ragionier Draghi che “il Pnrr contribuisce a ridurre il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. L’impatto complessivo del Pnrr sul Pil nazionale fino al 2026 è stimato in circa 16 punti percentuali. Per il sud, l’impatto previsto è di circa 24 punti percentuali.” Non facciamoci fregare perché dobbiamo fare un po’ di conti. Con la pandemia abbiamo perso il 10% di Pil che tradotto in miliardi fa 178,7 miliardi in meno di ricchezza.
Stima il Governo (ma non c’è nessuna certezza che sarà così soprattutto se continua il coprifuoco e non riparte il turismo) che quest’anno faremo il 4% in più, ma calcolato sulla base ridotta dalla precedente erosione. Se va bene facciamo 64 miliardi in più dello scorso anno che sono per il 36% di quello che abbiamo perso. Per tornare al livello che avevamo nel 2019 (anno di bassissima crescita, ma peraltro l’Italia ha avuto 20 anni di stallo e in particolare dal 2013 al 2018 quando ha governato il Pd siamo andati malissimo) si arriva a metà del 2023. Il Recovery scrive il governo ci dà 16 punti in più in sei anni, il che significa il 4% di media in più ogni anno, il che declinato con la (non) crescita che abbiamo registrato sin qui dice che nel 2027 a fine della vigenza del Recovery avremo un risicato più 3,6% del Pil effettivo.
E questo sarebbe il “piano epocale”?! Tenendo conto che gli altri cresceranno molto più di noi e che se aumentano i tassi avremo percentuali di crescita inferiori a quella degli interessi che dobbiamo pagare sul debito, significa che il debito diventa insostenibile. Ma di tutto questo, di queste possibilità, nel Recovery scritto dl ragionier Draghi non c’è taccia. E in ultimo. Il presidente del Consiglio è diventato anche un politico consumato perché a chi gli chiedeva di fare entrare il prolungamento del superbonus edilizio fino al 2023 ha detto: lo mettiamo in legge di bilancio. Bene la legge di bilancio sarà scritta in base al Def e non c’è capienza per questa misura. In più Draghi sa perfettamente che la legge di bilancio sarà scritta col semestre bianco già scattato (impossibilità di sciogliere le Camere) e dunque ogni promessa fatta per quella data ha il valore che ha. Piuttosto – ce ne occuperemo prossimamente – attenzione alle tasse: come scatta il semestre bianco si farà la riforma del fisco. Ma quella che piace a Bruxelles, non quella che converrebbe agli italiani.