APERTURA E ARCHITETTURA, ECCO COME SARANNO IL COHOUSING E LA SHARING ECONOMY

Architettura post-individuale, shared houses, storie di apertura, sharing economy in Giappone. L’intervista a Salvator-John Liotta di Laps Architecture.

Un incontro d’eccezione: Salvator-John Liotta di LAPS Architecture, studio con sede a Parigi fondato insieme a Fabienne Louyot. Liotta è impegnato alla Facoltà di Architettura La Cambre Horta dell’Universite Libre de Bruxelles, Louyot all’ecole d’architecture de Belleville a Parigi. Due architetti, un duo speciale che ha di recente pubblicato un testo inserito nella classifica dei 10 migliori libri di architettura del 2020 della World Architecture Community, “WHAT IS CO-DIVIDUALITY? Post-individual architecture, shared houses, and other stories of openness in Japan”.

Architetto Salvator-John Liotta, che cosa si intende per Co-dividualità?

Un’architettura che offre delle nuove risposte alle pratiche del vivere condiviso nell’era del post-individualismo, dei social media e della shared economy. Nel nostro lavoro di ricerca, il concetto di co-dividualità si precisa attraverso una analisi di circa 30 progetti progetti giapponesi composti da spazi che facilitano l’incontro. Il libro “WHAT IS CO-DIVIDUALITY? Post-individual architecture, shared houses, and other stories of openness in Japan” (eds. Jovis), investiga il vasto tema della ridefinizione fra spazio pubblico e privato in Giappone e dimostra come il concetto della co-dividualità sia anche un modo per attivare pratiche di partecipazione sperimentali, foriere di nuove forme di comunità trasversali. Viviamo un’epoca in cui si sente l’urgenza di ristabilire connessioni autentiche tra gli individui e di rafforzare il senso di comunità: temi che per forza di cose ridiventano prioritari.
Dopo il devastante terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone nel marzo 2011, la società giapponese ha iniziato a mettere in discussione la sua politica energetica, la sua sostenibilità ambientale e sociale. La contrazione demografica, i movimenti globali e i cambiamenti nel mercato del lavoro hanno influenzano la struttura tradizionale della società giapponese, sia nella sfera privata che in quella pubblica. Tipologie che non molto tempo fa sembravano essere chiuse, come le abitazioni private, le istituzioni pubbliche, le scuole o uffici organizzati in modo tradizionale con postazioni fisse, vengono messi radicalmente in discussione.
Più del 40% delle persone a Tokyo vivono da sole. L’impatto che ne scaturisce ha effetti negativi non solo dal punto di vista ambientale ma anche sociale. Tuttavia la nazione sta assistendo ad un cambiamento sia nell’organizzazione del privato ma anche degli spazi pubblici, sperimentando nuove forme di aggregazione: laboratori artigianali, spazi Yoga all’interno di abitazioni aperte al quartiere, librerie e caffè che diventano luoghi di transito per una società globale nella sua fase embrionale; spazi pubblici di passaggio con qualità di luoghi di sosta che favoriscono incontri tra entità diverse.
La condivisione di appartamenti tra estranei è rara in Giappone, a causa del fatto che l’organizzazione sociale porta le persone a preferire di vivere nelle cosiddette “one room mansions”, monolocali di piccole dimensioni. Tuttavia, negli ultimi tempi anni, a fronte di una fase demografica e socioeconomica in profondo cambiamento, sta diventando sempre più comune per i giovani condividere spazi pensati per questo fine, le shared house. Case un tempo accessibili solo ai consanguinei e membri della famiglia si sono trasformate in luoghi che offrono ristoranti comunitari e spazi di lavoro e residenza (SOHO), spazi comuni per lavori artigianali, per l’agricoltura urbana o anche solamente per trascorrere del tempo con gli amici.
Nel libro sulla co-dividualità, vari progetti mostrano il fenomeno delle shared house, ovvero della potenzialità offerta del vivere condiviso.
I progetti propongono una nuova filosofia dello stare insieme dove si facilitano i rapporti fra le persone che abitano una data casa e quelle estranee alla stessa, ma che sono invitate a condividere degli spazi pubblici all’interno della shared house. Oltre a sperimentare nuove pratiche dello stare insieme, si punta ad ospitare collaborazioni fra sconosciuti, a facilitare incontri inattesi, situazioni improbabili e fortuite, alimentando l’inconscio collettivo con un invito a riflettere su come esaltare la banalità del quotidiano.
Qui sta la grande differenza rispetto al nostro modo di progettare. In Italia, in Francia, nelle grandi città universitarie come Roma o Parigi, esistono forme di condivisione di alloggi, tra studenti, lavoratori, che però sono appartamenti progettati per nuclei familiari che si traducono in collezioni di stanze con uno spazio ridotto destinato alla cucina e nel migliore dei casi a un soggiorno.

L’emergere di una nuova sensibilità, basata sull’idea di comunità e di condivisione dei valori, favorisce una società co-dividuale dove le qualità dell’individuo sono valutate, ma all’interno di una comunità. Qual è la vera sfida dell’architettura nell’era del post individualismo?

Cosa offrono oggi alla città gli spazi per uffici, gli hotel, le banche? Si impossessano dello spazio pubblico, appropriandosi di un quartiere della città, di uno spazio pubblico, senza permettere alle persone di utilizzarlo, di fatto sottraendolo ad un uso pubblico. Oggi tutti questi spazi privati, se fossero investiti da una maggiore sensibilità, potrebbero offrire degli spazi aperti ad un pubblico al quale viene restituito un luogo per la comunità, che non debba per forza entrare in una logica commerciale. Ne è un esempio l’edificio Shibaura House di Kazuyo Sejima, un edificio a più piani per uffici situato sull’isola di Shibaura, a sud di Tokyo, con vista sul porto. Questa architettura offre diversi spazi di lavoro sovrapposti che sono spazialmente e visivamente connessi. L’idea è di fornire uno spazio fluido per supportare un’ampia gamma di attività; un luogo dove possono farlo sia gli individui che vi lavorano durante la settimana, sia i gruppi di persone esterne che possono qui organizzare le proprie riunioni, eventi, conferenze e mostre.
In questo edificio privato, i visitatori hanno accesso a tutte le aree; ogni posizione offre una vista dello spazio esterno e tutte le location possono essere viste anche dall’esterno.

Sperimentazione in corso nell’architettura giapponese. Come ha avuto inizio e come si è sviluppato nel corso degli ultimi anni il desiderio di vita comunitaria?

La raccolta dei progetti nasce in modo retrospettivo. Tornato a vivere in Europa, rimettendo insieme tanti progetti visti ne è venuto fuori un tema, quello della co-dividualità. E’ stato un ragionamento al contrario. Mi sono domandato: cosa ho visto quando ero in Giappone? Con quali temi si stavano confrontando gli architetti giapponesi? Cosa cercavano di trasmettere quelle architetture? Ho analizzato il problema demografico enorme, dell’invecchiamento della società, del vivere soli, l’esigenza delle shared house. Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, la seconda parte del Novecento è stata l’esplosione dell’individualismo, la convinzione che ognuno poteva affrontare la vita in maniera individuale, la narrazione dell’io invece che del noi ha preso sopravvento e ci siamo migliorati ed evoluti a livello personale, ma nell’andare avanti ci siamo resi conto che la vita di comunità assume una rilevanza fondamentale che in parte è andata persa.

Storie di apertura, di architettura, di spazi che non riproducono logiche del passato ma cercano di offrire pragmatiche soluzioni per condividere spazi, idee ed esperienze. Alla luce della crisi pandemica globale dell’ultimo anno, in che modo ripensare allora le diverse nozioni di co-living, cohousing e sharing economy?

Noi cerchiamo di stabilire una differenza tra co-living e co-dividualità. Il “co” viene dal latino “cum”, co-living significa “vivere-insieme”, co-dividuale mette ancora di più in risalto la forza del prefisso cum perché per noi è l’individuo che ha bisogno di tornare a fare comunità, la proposta è ancora più radicale… quella del co-living rimane un’offerta per lo più commerciale, ci vediamo un modo di stare insieme che non parte dalla necessità di fondare legami reali, duraturi che possano avere un impatto forte sulla vita delle persone. Nel caso specifico invece della co-dividualità, noi immaginiamo che questi legami, che si generano nel momento in cui si vive insieme, diventino legami importanti, che durano per tutta la vita. Chi ha fatto esperienza di co-abitazione in affitto con altre persone può testimoniare questi legami unici che si vengono a stabilire. C’è possibilità di sperimentare queste forme di legame oltre i periodi di studio/lavoro di quando si è ancora studenti universitari o giovani lavoratori?
Durante il periodo del Covid in Francia, si evidenziava la scelta di molte persone che preferivano continuare a vivere insieme agli altri coinquilini/amici piuttosto che tornare a casa dai genitori ed isolarsi dalle loro nuove comunità.
Che dovere quindi abbiamo noi, in quanto architetti, in seguito all’esperienza dell’emergenza sanitaria dell’ultimo anno? Abbiamo l’opportunità/obbligo di ripensare gli spazi della socialità e dello stare insieme, ma anche quelli che possono sopperire a situazioni di emergenza nelle nostre abitazioni. Il libro sulla co-dividualità illustra ricerche e sperimentazioni architettoniche che sono anche provocatorie ma in modo sottile, offrendo stimoli e spunti per immaginare un altro tipo di società più aperta, incuriosita dal divenire, divaricata sul possibile.

Inserito nella classifica dei 10 migliori libri di architettura del 2020 della World Architecture Community, “WHAT IS CO-DIVIDUALITY? Post-individual architecture, shared houses, and other stories of openness in Japan”, ci invita a riflettere sulle dinamiche contemporanee approfondendo i temi della responsabilità sociale, della qualità ambientale, della consapevolezza della scarsità delle risorse, dei limiti economici, della sperimentazione tipologica e tecnologica. Quanto è importante oggi comunicare il valore dell’architettura?

In Francia esistono le cosiddette “Maison de l’Architecture” e i CAUE (conseil d’architecture, d’urbanisme et de l’environnement), organismo investiti di una missione di interesse pubblico, nati dalla legge sull’architettura del 3 gennaio 1977.
Il loro obiettivo è quello di promuovere la qualità dell’architettura, dell’urbanistica e dell’ambiente, sono molto attive nello svolgere un ruolo di comunicazione e divulgazione architettonica. In Francia, la legge sull’Architettura del 1977, che stabilisce in modo molto chiaro che “l’Architettura è un bene di interesse pubblico”, di importanza primaria. Questo senso di civiltà e rispetto per la professione si traduce in concorsi di architettura dove l’architetto è retribuito per progettare (i primi 5 pre-selezionati sono poi remunerati per fare questo in modo proporzionale alla metratura e complessità del progetto). Il riconoscimento sociale dell’architettura moderna contribuisce alla qualità del processo architettonico.
Quanto a noi, in Italia, purtroppo da architetti abbiamo lasciato erodere lo spazio delle nostre competenze ad altri professionisti.

 

* Intervista di Federica Caponera tratta da pressletter.com LAPS Architecture è uno studio di Parigi che crede in un’architettura per una società migliore, e ha costruito progetti residenziali, culturali ed educativi in Francia, Italia, Spagna, Marocco e Giappone. LAPS Architecture ha vinto il premio Inarch/Ance ed è stato premiato (con menzioni d’onore varie) in cinque edizioni del premio Architetto Italiano e Giovane Talento dell’Architettura Italiana del CNAPPC nazionale. I progetti di LAPS Architecture sono stati ampiamente pubblicati in riviste internazionali come Domus, Abitare, AMC, The Plan tra le altre, e sono stati esposti al MoMA di New York e alla Biennale di Architettura di Venezia (2014, 2016).

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